Come sarà l’Italia imprenditoriale nel 2050?
Interessante intervista de “Il Settimanale” ad opera di Alessandro Paciello dove Fabio Papa, docente di economia, ricercatore ed esperto di politiche per il cambio generazionale nelle società familiari, esplicita le sue previsioni riguardo la situazione economica del paese.
Professore, lei è conosciuto per essere un ricercatore molto attento alle piccole e medie aziende italiane, con una forte vicinanza ai territori e alle famiglie imprenditoriali. Quale futuro si immagina per il nostro Paese?
Per immaginare il nostro futuro e scoprire come sarà l’Italia nel 2050, è utile partire dal nostro presente. In molti non sanno che in Italia oggi operano circa 4,5 milioni di imprese, di cui oltre – 98 su 100 – di piccole e medie dimensioni. Il dato ancora più interessante è che di questi 4,5 milioni di imprese, ben l’83% è a conduzione familiare. Parliamo quindi di circa 3,7 milioni di aziende. Pertanto, il dato significativo è che siamo un’economia mossa da piccole realtà capitanate da una moltitudine di famiglie imprenditoriali e ciò indipendentemente dalla regione presa in considerazione. Dall’altra parte, viviamo in un Paese dove la maturità imprenditoriale si ottiene solo al compimento del cinquantesimo anno d’età e che conta al suo interno un elevato numero di anziani in rapporto ai giovani. Dopo Giappone e Principato di Monaco, siamo il Paese con l’aspettativa di vita più alta al mondo.
Che cosa ci vuole dire con questi dati, quindi? E che legame c’è con territori e imprese?
Ciò che voglio dire è che la nostra economia non è a rischio recessione, ma a rischio estinzione. Ma nessuno sembra ancora essersene reso conto.
So che questa mia affermazione potrebbe risultare molto forte, ma visto che mi domanda come sarà l’Italia dei territori e delle imprese nel 2050, non posso fare altro che illustrare la dura verità, nella speranza che il mio grido d’allarme possa risvegliare gli animi di imprenditori, manager e professionisti. Ma anche dei governanti, troppo presi a rincorrere le emergenze del momento senza porsi il problema della transizione generazionale e della sua reale sostenibilità negli anni che verranno.
La sua affermazione è molto forte e mi destabilizza. Lei ipotizza che siamo a rischio estinzione imprenditoriale e che nel 2050 lo scenario non sarà affatto incoraggiante. Può essere più preciso?
La mia non è un’ipotesi, ma una certezza! E riparto dai dati: su 100 italiani solo 62 sono in possesso di un diploma. E le dirò di più: su 100 italiani solo 16 hanno conseguito la laurea. E solo 4 italiani su 100 aderiscono a meccanismi di formazione professionale durante lo svolgimento del proprio lavoro. Con oltre 3,5 milioni di giovani under 35 che – in questo preciso istante – non lavorano e non studiano. Dove voglio arrivare? L’Italia è in piena crisi culturale. Come se non bastasse, viviamo in un momento storico che richiede un enorme senso critico e dove senza aver maturato la capacità di coltivare il pensiero laterale non è possibile svilupparsi, né a livello territoriale né imprenditoriale.
Questi dati sono certamente interessanti. Lancio quindi una provocazione: se siamo così ignoranti e impreparati, come lei sta affermando, come mai rappresentiamo ancora oggi l’ottava potenza economica a livello mondiale? Ci è andata bene, finora? Solo fortuna?
No, affatto. C’è una spiegazione molto semplice: dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia era un Paese distrutto. In questo contesto, miseria, voglia di fare e fame permeavano il tessuto sociale. Nacque proprio da questi tre ingredienti il famoso boom economico che animò la nostra Italia e che rese i territori sempre più ricchi e dinamici. Si lavorava infatti senza sosta, con entusiasmo e passione alla ricerca di un benessere sociale ed economico che abbiamo conquistato con sacrificio e lavoro. Ma c’è un problema: quel Paese è diventato molto (troppo) ricco in un lasso temporale davvero breve. Ciò ha portato la popolazione ad accumulare tanto benessere, ma poca cultura e coscienza di sé.
E sono proprio questa mancanza di cultura e di senso di popolo a rappresentare le principali cause dei mali di un sistema-paese chiaramente destinato a implodere in un mondo che è completamente cambiato; tanto che molte aziende non hanno l’opportunità di implementare il passaggio generazionale in quanto si è persa quella fame di riscatto che ha guidato il Paese proprio durante il boom economico. Per questo siamo a rischio estinzione: perché manca la miccia in grado di riaccendere gli animi, soprattutto tra i giovani. E questa miccia non può più essere data dalla fame. Serve altro: servirebbe quello spirito critico che non vedo nel Paese e che nessuno ci invita a recuperare.
Mi scusi, il suo è un punto di vista davvero singolare. Lei sta dicendo che da qui al 2050 circa un milione di aziende è a rischio scomparsa perché i giovani non avrebbero le motivazioni dei loro predecessori a causa di una mancanza generalizzata di “fame” e di una scarsa preparazione culturale e civica. È mai possibile?
Non solo è possibile, ma è la triste realtà. Ogni anno mi confronto con migliaia di giovani. Oltre il 70% di loro proviene da famiglie imprenditoriali. Il trend che si è innescato è molto chiaro: i loro genitori si sono rivelati completamente inadeguati nel guidare le nuove generazioni verso l’apprezzamento dei veri valori della vita. E li hanno anche drogati con beni materiali, forse perché si sentivano in colpa per la loro assenza da casa o, ancora, perché troppo concentrati nel produrre una ricchezza economica che ci sta portando al vuoto sociale.
Il risultato di ciò è un Paese costituito da ragazze e ragazzi senza uno scopo preciso, che vagano nel digitale in cerca di quelle risposte che solo la famiglia (sempre più compromessa) potrebbe e dovrebbe offrire. In questo scenario anche scuola e università hanno fallito, sia perché troppo distanti dalla realtà, sia perché completamente inadeguate nell’ingaggiare gli studenti. I tassi di abbandono scolastico (a livelli record in Italia) non fanno che testimoniare tutto ciò. Siamo quindi allo sbando.
Il Paese è sotto anestesia totale. E senza giovani che vogliono impegnarsi, anche succedendo con entusiasmo e passione ai propri genitori nell’azienda di famiglia, le mie previsioni sull’estinzione delle imprese risultano addirittura ottimistiche.
Senza valori e cultura non c’è futuro. Ora che sono più convinto della sua visione, mi può fornire qualche soluzione concreta all’apocalisse socio-economico da lei rappresentata?
Mi piace essere sempre molto diretto: lo scenario è già fortemente compromesso. Ma esistono delle azioni pratiche che è possibile implementare in modo immediato per mitigare gli effetti negativi. Partiamo dalle famiglie, non solo imprenditoriali: è necessario smettere di assolutizzare l’importanza dei titoli di studio.
Rimettiamo al centro la passione e il talento dei figli. Rimettiamo a fuoco i valori veri, i sentimenti, la centralità dei nuclei familiari. In poche parole il cuore!
C’è bisogno di un vero e proprio salto di consapevolezza spirituale. Solo passando «dall’importanza del mero pezzo di carta» a un Paese che punta nuovamente sulle competenze reali e ai valori umani si potrà iniziare a invertire la rotta. Una volta che i genitori avranno finalmente effettuato questo passaggio epocale, gran parte dell’ansia da prestazione che caratterizza le nuove generazioni sarà magicamente svanita.
La seconda azione operativa è quindi dedicata ai giovani. Bisogna farli uscire dalla dicotomia «o si studia o si lavora». Bisogna fare entrambe le cose per crescere rapidamente. E bisogna anche capire, indipendentemente dal percorso di vita e di studi che si intende percorrere, che tre competenze saranno sempre necessarie nell’Italia che verrà: l’utilizzo di base del computer, il che non ne significa però la paranoica dipendenza digitale; la conoscenza di almeno una lingua straniera; la capacità di ascolto, in unione alla volontà di effettuare costante sacrificio – in un’ottica di lavoro di squadra e di condivisione valoriale.
Questi tre semplici ingredienti possono far letteralmente svoltare la vita di ogni giovane italiano, avviandolo a una nuova consapevolezza e al lavoro così, che si possa uscire quanto prima dalla zona di comfort.
E, infine, un terzo e ultimo suggerimento per le imprese: tutti i titolari d’azienda ambiscono alla continuità generazionale. In fondo, siamo esseri umani. È un’aspirazione comprensibile. Ma nel mondo di domani la preparazione è tutto. E visto che fare impresa è un mestiere, servirà comprendere che solo chi ha passione ed è disposto a evolvere in modo costante merita di entrare in azienda, affiancando con umiltà i propri genitori.
Senza dimenticare che il passaggio generazionale è un processo, oltre che una sfida. Proprio come quella che dovremo vivere in questi lunghi 28 anni prima del 2050.
Siamo davvero pronti? Mi auguro di sì, perché non ci sono alternative!
Fonte: ilsettimanale.pmi.it