Il mercato del lavoro
Secondo l’ultimo Global Gender Gap Index del World Economic Forum, mentre nel campo dell’istruzione e della salute i divari di genere sono globalmente inferiori al 5%, in ambito economico resta da chiudere il 41% del divario e in ambito politico ben il 77%. Alcuni Paesi però sono più avanti di altri sul fronte della parità. Alcuni, come Islanda, Finlandia, Svezia, Norvegia per esempio, hanno chiuso più dell’80% delle differenze tra uomini e donne. L’Italia resta indietro: all’82esimo posto su 144 Paesi analizzati, in caduta libera di 32 posizioni rispetto all’anno precedente, e addirittura al 118esimo posto quando consideriamo le opportunità e i risultati economici.
Il mercato del lavoro è, insieme alla politica, il luogo in cui le differenze di genere sono più ampie. Il tasso di occupazione femminile, come è dimostrato dal grafico, sia pur in lieve aumento negli ultimissimi mesi, è ancora fermo al di sotto del 50%, fanalino di coda in Europa, insieme alla Grecia, ben lontano da quel 75% che l’Europa raccomanda di raggiungere entro il 2020. Al Sud, il tasso è addirittura fermo al 30%.
Eppure le donne italiane sono più istruite degli uomini: su 100 ragazzi che si laureano, 60 sono ragazze. Non era così sessant’anni fa, quando solo il 25% dei laureati era donna. Restano alcuni divari nelle discipline di studio, con una scarsa presenza delle donne nelle discipline Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica), che sono e diventeranno sempre più importanti e remunerative sul mercato del lavoro. Ma anche in questi campi la presenza femminile sta aumentando.
Le statistiche sul mercato del lavoro, invece, stentano a migliorare. La vita delle donne lavoratrici italiane è un percorso a ostacoli. Già al primo lavoro perfino le laureate guadagnano circa il 7% in meno degli uomini (secondo i dati Almalaurea). La forbice si allarga al momento della scelta di avere figli: anche se l’età media alla nascita di un figlio aumenta, nella speranza che più avanti sia più facile combinare figli e lavoro, sono molte le madri che smettono di lavorare alla nascita di un figlio. Secondo gli ultimi dati dell’Ispettorato del lavoro, nel 2016 il 76% delle dimissioni sono state di lavoratrici madri. Un abbandono che è spesso definitivo, perché, in Italia più che in altri Paesi europei, è difficile rientrare sul mercato del lavoro dopo una lunga assenza. Più del 40% delle madri che si licenzia motiva la sua scelta con la difficoltà di conciliare il lavoro con la famiglia. Non solo la quantità, ma anche la qualità del lavoro femminile è inferiore a quella maschile: secondo l’Eurostat (2017), il 15,8% delle donne italiane lavora a tempo determinato, contro il 13,5% degli uomini: un fenomeno che si è accentuato negli anni della crisi economica. Le donne lavorano più spesso degli uomini part-time, con ripercussioni negative sulle carriere, e spesso il part-time è anche involontario, con conseguenze negative sui salari.
Per le donne che resistono sul mercato del lavoro, la parità retributiva è ancora lontana. Anche se i dati ufficiali Eurostat mostrano che l’Italia è uno dei Paesi con il più basso differenziale salariale di genere, si tratta del risultato della forte selezione positiva che caratterizza il mercato del lavoro italiano: le donne con potenziali redditi bassi restano fuori dal mercato del lavoro, con la conseguenza che le donne che lavorano hanno salari mediamente più alti – e quindi più vicini a quelli maschili – di quelli che vedremmo se la partecipazione femminile al mercato del lavoro fosse più elevata.
Anche le possibilità di carriera sono poche. Le donne in posizioni manageriali in Italia sono circa il 20%. Il valore migliora quando guardiamo ai consigli di amministrazione nelle società quotate, dove la percentuale femminile supera il 30%, grazie all’introduzione della legge sulle quote di genere nei consigli di amministrazione e collegi sindacali delle società quotate e al controllo pubblico (legge 120/2011, detta Golfo-Mosca). Si tratta, come sottolinea anche l’Oecd, dell’unica dimensione in cui l’Italia eccelle, grazie ad una legge considerata esemplare in Europa.
Quali misure aiuterebbero a sciogliere il nodo della partecipazione delle donne al mondo del lavoro? Uno dei motivi per cui le donne smettono di lavorare alla nascita di un figlio è la “competizione” che si innesca tra stipendio della donna e spese di cura: se la donna lavora, è necessario pagare una baby-sitter o un asilo nido, che possono essere più costosi dello stipendio stesso della donna. Poiché la donna tipicamente guadagna di meno dell’uomo, anche se i figli dovrebbero essere una responsabilità di entrambi i genitori, e anche in presenza di una cultura paritaria, la cura finisce per ricadere sulla donna. Di cosa hanno bisogno le madri per continuare a lavorare? Per esempio, di sgravi fiscali totali rispetto alle spese di cura per i figli (ma anche per gli anziani e i disabili a carico) e di incentivi: le donne che tornano al lavoro dopo la maternità obbligatoria dovrebbero ricevere almeno tanto quanto quelle che prolungano il congedo, e cioè il 30% del proprio stipendio, per esempio sotto forma di bonus o di voucher per le spese di cura. Un’altra misura fondamentale è il congedo di paternità, periodo esclusivo per i padri retribuito allo stesso livello di quello materno, che in Italia al momento è solo di 3 giorni. Una maggiore condivisione della cura, infatti, è fondamentale per sbloccare la rigida divisione dei ruoli tra uomini e donne esistente nel nostro Paese, che ostacola il lavoro femminile.
Di fronte della crescente consapevolezza che il lavoro femminile sia una questione fondamentale di diritti, ma anche un enorme potenziale di crescita del Paese, i risultati italiani dovrebbero far scattare l’allarme e far balzare l’occupazione femminile in cima all’agenda decisionale, politica ed economica. Oltre a mettere in campo misure appropriate, è infatti necessario anche creare un contesto culturale adeguato, nel quale le azioni possano avere successo. Una sfida impegnativa, ma necessaria. Non solo l’8 marzo.