Il mercato USA: una priorità per l’export italiano
Mentre tutto il mondo del business a livello globale si interroga su quando e come le misure annunciate dal presidente Trump sui dazi andranno a sconvolgere i flussi di commercio internazionale, penalizzando o premiando paesi e aziende ai quattro angoli del mondo, alle imprese italiane è fatto obbligo di affinare o definire una strategia di consolidamento o di ingresso negli USA.
Gli States, contrariamente a quanto pensano i non addetti ai lavori, costituiscono per l’Italia il secondo mercato di esportazione dopo la Germania, un mercato che genera più di quattro miliardi di surplus, con prospettive di crescita rilevanti alla luce dell’interessante livello di crescita che registra l’economia Usa già oggi.
Dazi e strategie di adattamento: una lezione dal passato
Le legittime preoccupazioni legate all’introduzione di dazi sui settori più importanti del nostro export nei mercati USA non devono far dimenticare che i dazi o meglio i super dazi trumpiani sono un dejà vu a cui sono state sottoposte molte categorie di merci del nostro export, assieme a quelle di altri paesi europei già in occasione del primo mandato di Trump.
Allora, pur causando un innegabile danno e un certo rallentamento nei flussi e nei valori, i cosiddetti super dazi – nella maggior parte dei casi – indussero le imprese italiane ad affinare le loro strategie di penetrazione e di consolidamento con il risultato che, a seguito della cancellazione intervenuta con l’era Biden, tutto l’export italiano, frenato temporaneamente dai dazi si ritrovò a vivere una forte crescita sul mercato pur dovendo far fronte alle problematiche intervenute a seguito della pandemia del Covid.
Quasi un decennio fa, nella prima era trumpiana, le imprese italiane si trovarono a modificare in parte il loro approccio al mercato, in alcuni casi andando a realizzare investimenti produttivi o distributivi all’interno del mercato USA e, in altri casi, ad avviare politiche di prezzo e di marketing concordate con l’importatore o con gli importatori per evitare che l’impatto del dazio si trasferisse nella sua totalità sul consumatore, con il rischio di perderlo per sempre a favore di altri concorrenti da paesi non coinvolti e penalizzati dai dazi.
In molte aziende italiane, allora si affermò la consapevolezza che fosse necessario ampliare la presenza di mercato andando ad esplorare nuovi territori e soprattutto nuove aree metropolitane che nel tempo erano andate a sostituirsi alle città della rust belt (la regione compresa tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi, un tempo cuore dell’industria pesante statunitense) che la new economy aveva messo in ginocchio. Uscire da New York, Chicago, Los Angeles e San Francisco si rivelò la scelta vincente per molte imprese. Ed è proprio in questa direzione che le imprese italiane, sia quelle dei beni di consumo che quelle dei beni strumentali, devono puntare con maggiore convinzione di quanto abbiano fatto nel passato.
Il cambiamento di paradigma: dal “go west” al “go south”
Una nuova strategia di internazionalizzazione, quindi, è necessaria, sia per attenuare l’impatto dei dazi, sia per sostituire quelle fasce di consumatori che si ritroveranno a comprare prodotti meno cari, sia per conquistare ai valori e alla qualità del Made in Italy le nuove classi sociali americane che le dinamiche dell’ultimo decennio, specie nell’era post Covid, hanno fatto fiorire in alcune importanti aree metropolitane e città a sud del Paese.
Le misure introdotte da Biden con l’Inflaction reduction act e altre azioni collegate, hanno portato una certa rivitalizzazione nell’economia USA, ma il fenomeno che più caratterizza il post Covid è l’adozione su larghissima scala del lavoro da remoto che ha portato diverse centinaia di migliaia di persone a trasferirsi, determinando un gigantesco spostamento di capacità di spesa dalle città del nord verso quelle del sud.
Al tradizionale go west si è andato sostituendo un go south che ha reso città come Miami e la Florida tutta, Dallas, Austin, Phoenix, le destinazioni più gettonate anche per investimenti nel settore del retail, della ristorazione, dell’entertainment e nel turismo.
Miami: da paradiso per pensionati a hub economico globale
Simbolo indiscusso di questo fenomeno sta diventando la città di Miami che, per l’effetto positivo generato dal combinarsi di tanti fattori, si va affermando non più semplicemente come la città dell’eterna vacanza al sole per i pensionati, ma come un cuore economico pulsante con rilevanza non solo regionale ma con impatti sulla stessa economia nazionale degli Usa.
Con quasi 6 milioni di residenti e una produzione economica di oltre 300 miliardi di dollari Usa, l’economia di Greater Miami ha oggi le stesse dimensioni di quella di Singapore e Hong Kong e la città si trova a essere il centro della zona sud della Florida che comprende anche le città di Orlando e di Tampa, in cui vivono più di 15 milioni di persone, che generano valori economici attorno ai 750 miliardi di dollari, per farne un’economia tra le top 20 a livello globale.
Miami e il Made in Italy: un mercato da tre miliardi di dollari
Nel corso dell’ultimo decennio l’economia del territorio è andata sempre più diversificandosi, andando a irrobustirsi in alcuni settori di nuova specializzazione, tra i quali vanno menzionati il settore immobiliare, quello finanziario (con circa 900.000 addetti) e quello delle start up e dell’innovazione.
Il settore più importante del punto di vista strutturale della Grande Miami resta il turismo ma pur non avendo i grandi player dell’economia californiana, Miami è, in ogni caso, un’economia molto proiettata nel futuro con una forte specializzazione nell’economia creativa dal punto di vista dell’arte, della cultura e dell’intrattenimento.
Ai tradizionali settori del turismo e dell’agricoltura si sono andati ad affiancare prepotentemente il settore aerospaziale, dell’aviazione e della difesa (ben 18.000 aziende con circa 200.000 addetti) e delle life sciences, che possono contare su ben 1.500 aziende biotech e farmaceutiche.
Ad oggi, lo stato della Florida offre mercato di sbocco ai prodotti Made in Italy per un valore stimato attorno ai 3 miliardi con una vasta gamma di prodotti destinati sia ai consumatori che agli utilizzatori industriali.
Miami: la nuova porta d’ingresso nel mercato USA
Ad accrescere le capacità di attrazione di prodotti italiani contribuiranno, nei prossimi anni, numerosi fattori, ma l’evento che da molti esperti viene considerato come determinante per un’ulteriore crescita del Made in Italy, sarà certamente l’avvio delle attività del più grande polo crocieristico al mondo, che potrà contare sui tre nuovi terminali crocieristici commissionati da MSC a Miami e realizzati da imprese italiane.
Con l’avvio di questi terminal Miami andrà ad accrescere notevolmente la posizione di leadership nel settore su scala mondiale e registrerà un notevole aumento nelle attività di logistica e consumo di beni per effetto dell’accresciuto numero di turisti che si andrà a registrare.
La città, anche alla luce del disastro avvenuto a Los Angeles, è destinata ad attirare l’attenzione di investitori in una molteplicità di settori, andando ad accrescere la sua capacità’ di attrazione dal Sud America e dall’America centrale, rafforzando il suo ruolo di ponte tra Nord e Sud America.
La posizione geografica di Miami costituisce certamente un rilevante fattore di competitività ma è soprattutto la politica fiscale e legislativa portata avanti dallo stato della Florida e dalla città di Miami che depone a favore di una forte espansione economica nel prossimo futuro, ponendo le condizioni per una più forte attenzione a questo territorio da parte del sistema esportativo italiano.
Nuove strategie per competere negli USA
I dazi trumpiani renderanno nelle tradizionali piazze del Made in Italy più difficile l’acquisto da parte di un buon numero di consumatori Usa, i quali o ne consumeranno di meno o si rivolgeranno a succedanei provenienti da altri paesi o sostituti forniti dalle industrie locali.
La risposta strategica per compensare queste possibili perdite può venire da una più aggressiva politica di marketing e da una rigorosa strategia di comunicazione su territori come Miami e non solo dove esistono forti potenzialità di crescita, che si accompagnano anche a una buona predisposizione per il prodotto Made in Italy.
Per le aziende italiane già presenti sul mercato si tratterà di spostare il tradizionale impegno su piazze come New York, Chicago, San Francisco, Los Angeles e attenzionare proprio l’area di Miami, un territorio che è da considerarsi il laboratorio primario della Trumpnomics.
Per le aziende che solo ora stanno approntando un piano di ingresso nel mercato USA, Miami può costituire un gateway strategico per arrivare a un territorio che secondo gli ultimi dati è al quarto posto come forza economica all’interno degli USA.
Gli sviluppi nel settore dell’edilizia e dell’ospitalità sono destinati a fare da volano a una vasta gamma di prodotti, primi tra tutti mobili e arredo di alta fascia, mentre la prevista crescita turistica è destinata ad alimentare crescite sostenute nei settori della moda e del food.
Naturalmente, si tratta di opportunità di cui potranno certamente approfittare anche i competitors delle aziende italiane, che in alcuni casi possono essere favoriti.
Vincere in quei mercati comporta che le nostre imprese sono chiamate a modificare profondamente il loro approccio, abbandonando il tradizionale modello di business basato su fornitore /acquirente per passare a un approccio basato su una più stretta collaborazione tra fornitore e partner.
La chiave di volta – e di successo – è mettere a punto un modello di partnership con l’importatore, un modello che laddove adottato nel passato ha fornito alle imprese italiane la chiave per un successo duraturo. Le imprese italiane devono maturare la consapevolezza che nel grande mercato USA esistono diversi differenti segmenti merceologici che, se affrontati con la strategia appropriata, possono estendere su scala più larga il successo del Made in Italy.