Nonostante il valore record del 2022, il commercio mondiale si sta ristrutturando in blocchi. I possibili vincitori dell’ondata di reshoring e friendshoring.
Gennaio 2020, nel suo Outlook trimestrale il Fondo Monetario Internazionale descriveva segnali di ripresa del commercio globale, citando tra i fattori positivi le notizie di una possibile ripresa dei negoziati commerciali tra Stati Uniti e Cina. Sembra un altro mondo. In questi tre anni il commercio globale ha prima conosciuto interruzioni impensabili delle catene di approvvigionamento durante i primi mesi di pandemia. Con la ripresa della domanda globale post lockdown, l’impennata dei costi di trasporto e la crisi dei semiconduttori divenuti introvabili nel mercato globale, hanno poi assestato un altro colpo nella stabilità dei traffici globali. Infine, quando la pandemia sembrava alle spalle, è giunta l’incertezza geopolitica causata dalla guerra in Ucraina, il riaccendersi delle tensioni commerciali tra USA e Cina e la riscoperta di politiche industriali all’insegna del my country first e dei local requirements.
Eppure, nonostante queste scosse telluriche, gli ultimi dati sull’andamento del commercio globale mostrano valori ben superiori (complice l’inflazione) ai livelli pre-pandemici. Il totale dei traffici mondiali di beni nel 2022 ha toccato infatti i 25 trilioni di dollari contro i 19 trilioni del 2019. Se a livello aggregato sembra business as usual entrando nel dettaglio dei rapporti commerciali è ben visibile tuttavia un trend di ristrutturazione in blocchi dei poli della produzione industriale mondiale, in corso già da decenni ma che in questi anni di crisi sta registrando un’accelerazione ben definita. Quali sono e saranno i possibili vincitori di questa ondata di reshoring e friendshoring?
Messico: confine caldo
Per trovare il primo polo manifatturiero destinato a giocare un ruolo chiave nei prossimi decenni basta scendere nello Stato messicano di Baja California, lungo il confine con gli Stati Uniti. Qui la domanda di spazi industriali sta superando l’offerta e solo il 2% circa dello spazio nei parchi industriali è ora disponibile. Il governo messicano afferma che attualmente più di 400 aziende (cinesi incluse) hanno mostrato interesse a spostare la produzione dall’Asia al Messico. Il motivo è semplice: la spedizione di un container pieno di merci dalla Cina agli Stati Uniti richiede generalmente un mese, un periodo di tempo che è raddoppiato e triplicato durante le peggiori interruzioni causate dalla pandemia. Una spedizione dalle fabbriche in Messico ai rivenditori negli Stati Uniti richiede al massimo due settimane. In una parola nearshoring.
Il trend non è certo nuovo. A partire dagli anni ’90, il Messico è diventato un hub per l’offshoring statunitense, beneficiando dell’accordo di libero scambio nordamericano (NAFTA), attuato nel 1994, poi sostituito dall’accordo Stati Uniti-Messico-Canada (USMCA) entrato in vigore il 1° luglio 2020, che offre certezza sulle tariffe e la possibilità di spostare le merci attraverso il Nord America in modo rapido ed efficiente.
È soprattutto negli ultimi anni però che gli investimenti americani in Messico si stanno impennando: 32,1 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri (IDE) nei primi nove mesi del 2022, il massimo dal 2013. E nel 2021, gli investitori americani hanno investito più denaro in Messico che in Cina. Parallelamente si assiste anche a un boom dell’export di beni dal Messico in direzione degli USA. Nel 2022 il Messico ha esportato beni per 324 miliardi di dollari negli Stati Uniti, con un aumento di quasi il 20% rispetto allo stesso periodo del 2021. Dal 2019, le importazioni americane di beni messicani sono aumentate di oltre un quarto. Complessivamente, circa il 40% del valore delle esportazioni messicane verso gli Stati Uniti è costituito da parti e componenti prodotti in stabilimenti americani, mentre solo il 4% delle importazioni dalla Cina è di produzione americana. Una differenza centrale per la politica industriale statunitense che è sempre più estesa verso i partner regionali.
L’Inflation Reduction Act (IRA) prevede infatti che i 7.500 dollari di crediti fiscali garantiti ai consumatori per l’acquisto di veicoli elettrici si applichino alle macchine che assicurino l’assemblaggio finale in Nord America (quindi anche in Canada o Messico). Inoltre, metà del credito fiscale è collegato all’origine delle batterie e l’altra metà alle materie prime utilizzate per la produzione del veicolo. Per ottenere ciascuna metà, una porzione minima dei componenti delle batterie (attualmente il 50%) o dei minerali critici (attualmente il 40%) deve provenire dagli Stati Uniti o da Paesi con i quali gli Stati Uniti abbiano un trattato di libero scambio, di nuovo Messico e Canada.
Oltre agli sgravi dell’IRA, grazie al programma IMMEX, istituito nel 2006, i produttori stranieri che producono in Messico possono importare materie prime e componenti, in esenzione da imposte e dazi, a condizione che il 100% di tutti i prodotti finiti venga esportato fuori dal Messico entro un periodo di tempo stabilito dallo Stato. Una combinazione di facilitazioni alla produzione, che in aggiunta alla posizione geografica, al legame con gli USA e a un costo unitario della manodopera inferiore a quello della Cina in molti settori, pone il Messico come uno degli osservati speciali tra i poli manifatturieri del futuro, nonostante i ben noti problemi di criminalità interna.
Altasia: lavori in corso
Assorbendo gran parte della capacità produttiva persa dalla Cina, l’altro Paese considerato uno dei maggiori beneficiari della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è il Vietnam. Già nel 2019 produceva quasi la metà dei 31 miliardi di dollari di importazioni americane che si sono spostate dalla Cina ad altri Paesi asiatici a basso costo.
Numerosi sono i punti di forza a suo vantaggio: una crescita media del Pil dal 2000 più alta di qualsiasi altro Paese asiatico (ad eccezione della Cina), un’ampia rete di accordi di libero scambio, e salari del 90% inferiori rispetto agli Stati Uniti, del 50% rispetto alla Cina e del 30% rispetto all’India. Grazie a questi fattori tutti i grandi nomi nel campo dell’hi tech stanno sempre più trasferendo pezzi di produzione dalla Cina al Vietnam. La quota delle esportazioni nazionali rappresentata dall’elettronica nel giro di 10 anni è così passata dal rappresentare il 14% all’attuale 40%. Ma per quanto il Vietnam si stia specializzando come hub high tech, non può offrire la base produttiva della Cina. E lo stesso si può dire di altri centri manifatturieri in crescita come Indonesia e India. Bisognerebbe mettere insieme tutte le economie dell’ASEAN, India, Giappone, Sud Corea e Taiwan (un aggregato definito Altasia dall’Economist), per raggiungere numeri pari a quelli di Pechino: 155 milioni di persone di età compresa tra i 25 e i 54 anni con un’istruzione terziaria, rispetto ai 145 milioni della Cina, 634 miliardi di dollari di merci esportate in America nel 2022, superando i 614 miliardi della Cina.
Tutti questi Paesi, ad eccezione dell’India, hanno aderito al Partenariato economico globale regionale (Regional Comprehensive Economic Partnership) che armonizza le regole di origine tra i vari accordi commerciali esistenti nella regione, creando un mercato unico dei prodotti intermedi. Brunei, Giappone, Malesia, Singapore e Vietnam fanno anche parte del Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp). E si può citare anche l’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity, la nuova iniziativa americana, di cui molti Paesi della regione fanno parte, che però non offre né tagli tariffari né un migliore accesso al mercato statunitense. Ad oggi quindi esiste il potenziale affinché l’Altasia (o una sua versione ridotta di Paesi più politicamente ed economicamente vicina agli USA) diventi un polo produttivo capace di tenere testa a Pechino nei prossimi decenni. Nonostante i molti accordi commerciali regionali in vigore, molto dipenderà però dai progressi nei processi di integrazione tra le economie fortemente differenziate che compongono questo gruppo eterogeneo.
Cina: ex fabbrica del mondo?
L’Altasia non sostituirà quindi la Cina a breve, e bisogna quindi chiedersi se effettivamente tra i grandi centri manifatturieri del futuro non sia il caso di continuare a citare Pechino. La manodopera cinese non è più così a buon mercato: tra il 2013 e il 2022 i salari del settore manifatturiero sono raddoppiati, raggiungendo una media di 8,27 dollari all’ora. E il Paese si ritrova a fare i conti con una crisi demografica tra bassa natalità e popolazione sempre più vecchia. Ci sono poi ostacoli geopolitici tali per cui tra guerra commerciale e una potenziale guerra fredda con Washington, non sorprende come molte multinazionali occidentali stiano rivedendo la loro posizione nei confronti della Repubblica popolare: le vendite delle multinazionali americane in Cina sono rimaste ferme tra il 2017 e il 2020. In India sono cresciute del 6% all’anno nello stesso periodo.
A guardare poi i dati sulla quota di Pil prodotto dal manifatturiero, il calo cinese sembra confermato: dal 32% del 2004 al 27% del 2021. Tuttavia, questo calo di quote di manifatturiero in rapporto al Pil è nettamente più basso di quanto ci si sarebbe potuto legittimamente attendere. Sono infatti ormai trascorsi quindici anni da quando i salari medi nel settore manifatturiero cinese sono più alti rispetto a quelli del Sud-Est asiatico, eppure moltissime aziende hanno continuato a produrre lì, anziché spostarsi altrove. I motivi: grandi investimenti in infrastrutture, forza lavoro più preparata e, soprattutto, la possibilità di generare grandi economie di scala.
Bisogna poi dare uno sguardo a cosa si cela dietro le percentuali. Tra il 2019 e il 2021 il peso del manifatturiero in Cina è rimasto stabile al 27% del Pil. Tuttavia, in valori assoluti e normalizzando per l’inflazione, il Pil generato dal manifatturiero è salito da 6.100 a 6.700 miliardi di dollari. 600 miliardi di dollari aggiuntivi pari a circa sei volte la crescita del manifatturiero indiano nello stesso periodo, e tre volte quella vietnamita.
Di conseguenza non solo la Cina continua a detenere quote maggioritarie del manifatturiero dell’Asia orientale e meridionale, ma queste sono addirittura cresciute nel tempo: dal 26% del 2004, al 57% del 2019, fino ad arrivare al 59% nel 2021. E anche considerando che la quota della produzione manifatturiera mondiale rappresentata dalla Cina negli ultimi anni è stabile intorno al 29% (era al 3% nel 1990), ben sopra il 17% del secondo Paese in questa classifica, gli Stati Uniti. La Cina è al primo posto in termini di quota di produzione globale in 16 delle 22 categorie manifatturiere monitorate dalle Nazioni Unite, mentre è seconda in altre sei. Non c’è praticamente settore in cui la Cina non detenga almeno una quota di mercato globale del 20%, mentre detiene quote superiori al 40% nelle apparecchiature elettriche, nei metalli di base e nei computer.
In conclusione, nonostante gli evidenti cambiamenti in atto nel commercio internazionale, la Cina resta la fabbrica del mondo. Le catene di approvvigionamento globali stanno diventando più disperse e meno centrate su Pechino, specialmente nei settori tecnologici. Ma ad oggi, nessun’altra economia garantisce quello stesso mix di ampia forza qualificata a un costo contenuto, sistema di infrastrutture efficiente e generosi sussidi e incentivi statali necessario per il futuro primato nella produzione manifatturiera.
Fonte: ISPI, Istituto per gli studi di politica internazionale