Dove e come ripararsi dalla tempesta trumpiana dei dazi

Tanto tuonò che piovve.
Dopo numerosi annunci, il 2 aprile sono finalmente entrate in vigore le misure promosse dal Presidente degli Stati Uniti.

Da settimane, il sistema economico e imprenditoriale italiano – così come quello di molti altri Paesi – era impegnato nell’elaborazione di una risposta ai dazi americani, cercando al contempo di definire una strategia in grado di attenuarne gli effetti. Nelle dichiarazioni ufficiali si è più volte fatto riferimento alla necessità di orientare l’export verso nuovi mercati, identificando alcuni Paesi come “ad alto potenziale”.

Le misure volute da Trump stanno già provocando un innegabile sconquasso nei flussi di commercio e nei mercati finanziari di tutto il mond. Ma occorre dare il giusto peso alle considerazioni di chi afferma che le misure adottate hanno generato certamente una tempesta, ma non un tornado.

In alcuni settori imprenditoriali si sta facendo strada la convinzione che i dazi possano essere affrontati e superati attraverso intelligenti aggiustamenti nelle strategie di esportazione. Resta comunque indispensabile l’azione delle istituzioni per contenere gli impatti negativi delle decisioni americane.

Tra gli interventi ritenuti prioritari figura il rafforzamento delle attività commerciali verso i cosiddetti Paesi ad alto potenziale, nella prospettiva di conquistare nuove quote di mercato per il Made in Italy.
In sostanza, almeno per quanto riguarda l’Italia, si è tornati a utilizzare strategie e linguaggi risalenti ad almeno un decennio fa, puntando su una serie di mercati ritenuti in grado di accogliere nuovi flussi di prodotti italiani tali da compensare, almeno in parte, le perdite subite sul mercato statunitense.

Paesi emergenti

Purtroppo, una strategia così semplice da definire, annunciare e rilanciare pubblicamente si scontra con diversi ostacoli di mercato. Tra questi, spiccano l’assenza – in molti dei Paesi indicati come ad alto potenziale – di classi di consumatori con un elevato potere d’acquisto e una cultura in grado di apprezzare pienamente il Made in Italy e l’Italian Lifestyle.

È opportuno ricordare che, nonostante gli sforzi compiuti negli anni, il Made in Italy ha faticato a radicarsi proprio in molte di queste aree oggi considerate strategiche, che spaziano dal Sud-Est asiatico all’Estremo Oriente, dai Paesi del Golfo fino ad alcune regioni del continente africano.
Inoltre, indicare il Brasile come mercato ad alto potenziale significa ignorare alcune criticità fondamentali. Il gigante sudamericano è infatti caratterizzato da uno dei più alti livelli di protezionismo a livello globale. La sua appartenenza ai BRICS – l’organizzazione che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – implica inoltre l’adozione di logiche spesso distanti dai principi del libero commercio.

Alla ricerca del cliente globale dell’Italian Style

Alcuni dei paesi indicati come possibile medicina ai mali causati dalle misure USA si sono nel tempo caratterizzati come campioni di barriere al commercio visibili e invisibili, sia per difendere le industrie locali sia per rallentare modelli consumistici di tipo occidentale che passano attraverso l’acquisto di prodotti importati.

L’idea che esistano in tanti mercati sino a ora trascurati dalle imprese italiane larghi strati di consumatori e utenti di beni industriali pronti a offrire mercato al Made in Italy si scontra per i beni di consumo con limitate capacità d’acquisto, scarsa conoscenza dei prodotti, assenza di reti distributive idonee al prodotto italiano, mentre per i beni strumentali sono da superare l’agguerrita competizione già in essere da parte dei principali concorrenti che è destinata inesorabilmente a rafforzarsi a seguito delle porte chiuse o ristrette del mercato USA.

Barriere culturali e dazi commerciali

L’ingresso e la possibile espansione su un nuovo o consolidato mercato, come ben sanno le imprese italiane, richiede un lavoro di molti mesi se non addirittura anni, soprattutto in considerazione del posizionamento di mercato che i beni del Made in Italy e del lifestyle italiano hanno saputo guadagnarsi nell’arco degli ultimi decenni.

Nel caso dei prodotti alimentari, il desiderio di espansione dei nostri produttori si scontra con numerose politiche protezionistiche messe in atto da tempo da molti paesi: le abitudini alimentari – come nel caso del vino e degli alcolici e dei prodotti della lavorazione delle carni suine – e i vincoli religiosi che, soprattutto negli ultimi anni, sono diventati anche più stringenti in mercati che, pur avendo potenzialmente capacità di acquisto, sono bloccati e condizionati da modelli culturali.

Quindi ci troviamo davanti al classico caso ‘’facile a dirsi e difficile a farsi’’.

La crescita dell’export italiano negli USA e, soprattutto l’impennata registratasi negli ultimi decenni, è legata a numerosi fattori e non si può ignorare che alcuni di questi ricorrono solo e semplicemente nel caso del mercato USA. Il solo mercato al di fuori dell’Europa che ha aperto ai prodotti italiani da più di un secolo. Il solo mercato che ha una componente etnica italo americana molto rilevante, ancora sensibile al prodotto italiano. Il solo mercato nel mondo che ha un reddito pro-capite di circa 80.000 dollari USA all’anno e con diverse decine di milioni di consumatori abituali di tutta la gamma di prodotti agroalimentari, per la persona e per la casa fornite dal sistema industriale della nostra penisola.

Gli USA sono anche il solo mercato che presenta, nella fascia di consumatori a elevata capacità di spesa, una penetrazione elevata di consumi di Made in Italy, al punto che la giornata di questi consumatori è scandita dall’utilizzo di una vasta gamma di prodotti italiani, all’interno delle abitudini e dello stile di vita che definiamo americano.

I tempi della conquista di un mercato estero

Certamente, in alcuni Paesi che hanno registrato una forte crescita nell’ultimo decennio – come Cina, India, Paesi del Golfo, Brasile e alcuni Stati africani – si sono sviluppate fasce di consumatori sensibili al Made in Italy. Tuttavia, i volumi di mercato che finora hanno garantito un ritorno concreto al Made in Italy restano molto limitati, e le proiezioni sull’andamento, sia nel breve che nel lungo termine, non indicano alcun possibile exploit.
Affinché in questi Paesi si possa raggiungere una penetrazione anche solo paragonabile – o minimamente speculare – a quella della presenza italiana negli Stati Uniti, non sarebbero sufficienti azioni di aggressiva politica commerciale e promozionale. Sarebbero infatti necessarie altrettanto incisive azioni diplomatiche presso i governi locali, che nel tempo hanno irrigidito le normative per ostacolare la naturale circolazione dei beni importati, anche tra le fasce più abbienti della popolazione.

Gli imprenditori italiani sono perfettamente consapevoli di quanto sia difficile costruire reti distributive per i beni di alta gamma in questi Paesi, e di come persino le dogane adottino misure volte a scoraggiare l’importazione di beni cosiddetti di lusso o percepiti come concorrenti rispetto alla produzione locale.

Pertanto, anche ipotizzando che un’azione mirata nei territori ad alto potenziale possa, in uno scenario ottimistico, generare nei prossimi anni i risultati auspicati, è fondamentale definire fin da subito una strategia di resistenza e di possibile espansione sul mercato statunitense, oggi minacciato dai dazi. Occorre attivare strategie reattive fondate sui punti di forza che il Made in Italy ha saputo consolidare nel tempo.

Non è dunque pensabile che, dopo decenni di intenso lavoro e di attività, le aziende italiane possano tirarsi indietro, rinunciando a priori al più redditizio mercato estero. Anche a fronte di un inevitabile e certo aumento dei prezzi per i consumatori e di una conseguente contrazione dell’export, almeno nel breve periodo. 

L’unicità del mercato USA per il Made in Italy

L’unicità del mercato USA risiede soprattutto nei numeri e nei fattori che lo distinguono rispetto alla maggior parte dei mercati considerati interessanti per il Made in Italy.

In primo luogo, vanno evidenziati l’ammontare complessivo dell’export, che si attesta intorno ai 70 miliardi di dollari, e il consistente surplus generato a favore delle imprese italiane, superiore ai 40 miliardi di dollari.

Altro elemento cruciale è la struttura peculiare di questo mercato, che coinvolge tutti i settori di eccellenza del Made in Italy: non solo food & wine, moda e arredo, ma anche il comparto farmaceutico e numerose tecnologie produttive ad alta specializzazione.

I principali punti di forza del Made in Italy negli Stati Uniti possono essere così sintetizzati:

  • Forte e consolidata presenza territoriale in alcuni Stati, dove la penetrazione del mercato può raggiungere anche il 10% dei beni importati dagli USA;
  • Presidio qualificato ed efficace del mercato, grazie a partnership consolidate con i principali attori della distribuzione statunitense, sia nella grande distribuzione organizzata (GDO) che tra gli operatori indipendenti di medie e piccole dimensioni;
  • Presenza ancora debole in alcuni Stati del Sud, che – alla luce delle trasformazioni economiche degli ultimi decenni – rappresentano oggi aree ad alto potenziale, con milioni di nuovi consumatori attratti dal made in Italy;
  • Posizionamento nei segmenti premiumleadership consolidate in numerosi settori, grazie alla presenza di imprese iconiche italiane che godono di riconoscibilità e reputazione elevate.

 

I casi di successo del Made in Italy sul mercato statunitense non si limitano ad alcuni settori o a poche aziende iconiche: coinvolgono, al contrario, una gamma vastissima di prodotti, probabilmente senza eguali tra i Paesi fornitori degli Stati Uniti.

Dall’iniziale passione per la pasta, i consumatori americani si sono via via innamorati di numerosi altri elementi dello stile di vita italiano, arrivando ad adottare modelli comportamentali riconducibili alla nostra cultura. Ciò che più conta è che tali modelli non sono più legati esclusivamente alla componente etnica italiana presente negli USA, ma stanno conquistando fasce sempre più ampie della popolazione, in particolare le nuove generazioni, sempre più sensibili alla genuinità dei prodotti e alla cultura della sostenibilità che molti prodotti italiani rappresentano.

Oggi, anche a seguito dei profondi cambiamenti indotti dalla pandemia da Covid-19, si registra un aumento significativo del consumo domestico di prodotti agroalimentari italiani negli Stati Uniti. Questo fenomeno si affianca a un vero e proprio boom della ristorazione autenticamente italiana, sempre più orientata a utilizzare e servire ingredienti originali e certificati Made in Italy.

Mercato Usa: le potenzialità di crescita

Alla luce di quanto esposto – e considerando anche una serie di dati economici spesso trascurati dagli analisti – gli Stati Uniti si confermano come il primo Paese al mondo ad alto potenziale nella lista dei mercati da monitorare attentamente per far crescere l’export italiano.

Nel terzo trimestre del 2024, il PIL pro capite degli USA presentava un’ampia forbice: dai circa 53.000 dollari del Mississippi, uno degli Stati meno ricchi, ai 246.000 dollari del Distretto di Columbia, che però conta meno di un milione di residenti. È importante notare che molti degli Stati americani con PIL pro capite nella fascia bassa della classifica presentano comunque livelli di reddito superiori alla media dei Paesi OCSE.

Ad esempio, West Virginia, Arkansas, Alabama e South Carolina registrano un PIL pro capite compreso tra 56.000 e 59.000 dollari. Ai vertici troviamo invece:

  • New York: 107.000 euro
  • Massachusetts: 101.000 euro
  • Washington State: 99.000 euro
  • California: 96.000 euro

 

Per confronto, la media del PIL pro capite dell’Unione Europea alla fine del 2024 si attesta intorno ai 40.000 euro, con forti disparità: Romania è tra i fanalini di coda con circa 15.000 euro, mentre il Lussemburgo guida la classifica con circa 125.000 euro.

Stati USA, economie globali

In pratica, il PIL del Mississippi – uno degli Stati più poveri degli Stati Uniti – è comunque superiore alla media dell’Unione Europea e inferiore soltanto a quello della Germania, escludendo per ovvie ragioni il caso eccezionale del Lussemburgo.

La prima economia statale degli USA è la California, con un PIL di circa 2.750 miliardi di dollari, che la pone davanti a Regno Unito, India, Francia e, ovviamente, Italia.

L’economia californiana è quindi appena inferiore a quella tedesca, ma con una forza lavoro relativamente contenuta: 19,3 milioni di addetti contro i 33,8 milioni del Regno Unito. Ciò significa meno lavoratori, ma una spesa pro capite nettamente superiore.

Segue al secondo posto il Texas, con un PIL di circa 1.800 miliardi di dollari, superiore a quello del Canada, ma con una forza lavoro di appena 13,5 milioni di addetti, rispetto ai 20 milioni canadesi.

Al terzo posto troviamo lo Stato di New York, con un PIL di circa 1.550 miliardi di dollari. Pur essendo inferiore a quello italiano, supera le economie di Corea del Sud, Australia e persino Russia, con una forza lavoro di 10 milioni di persone, pari a un terzo di quella sudcoreana.

Al quarto posto si colloca la Florida, con un’economia pari a 967 miliardi di dollari – paragonabile a quella dell’Indonesia – e in costante ascesa da oltre un decennio.

4% della popolazione, 25% della ricchezza mondiale

Ma ciò che più di ogni altra cosa evidenzia la forza dell’economia statunitense è questo dato straordinario: pur rappresentando solo il 4% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti generano oltre il 25% della ricchezza globale.

Un dato che conferma la straordinaria dimensione del mercato americano, l’elevata ricettività dei suoi consumatori, e la presenza di ampie opportunità di espansione per le imprese italiane – anche al di fuori dei grandi poli già presidiati.

Di conseguenza, gli USA presentano all’interno dei 50 stati, anche in quelli nelle ultime posizioni USA ma pur sempre in alto nelle classifiche mondiali, vasti segmenti di mercato  da conquistare e su cui lavorare per rafforzare la presenza e soprattutto per non lasciare il campo ad imprese provenienti da quei paesi beneficiari della benevolenza trumpiana e che con prezzi bassi e scadente qualità potrebbero ritrovarsi a godere di inattesi vantaggi competitivi.

USA: un mercato da presidiare con strategia e metodo

Piuttosto che allentare la propria azione sul mercato USA, per le aziende italiane è oggi imprescindibile intensificare le attività con politiche aggressive di marketing e comunicazione, finalizzate a rafforzare lo storytelling vincente che ha posizionato il Made in Italy ai vertici delle scelte di consumo di oltre 100 milioni di consumatori americani.

A ciò si aggiunge la reputation consolidata in settori chiave, inclusi ambiti di medium-high technology, che merita di essere tutelata e potenziata.

Le difficoltà legate alle nuove misure tariffarie impongono una riflessione profonda sul modello di ingaggio con la distribuzione USA. Occorre superare lo schema tradizionale basato su venditore e compratore-distributore, puntando invece su partnership evolute.

Queste dovrebbero consentire una pianificazione congiunta di:

  • Quantitativi
  • Tempistiche
  • Strategie di prezzo condivise

 

Queste ultime risultano oggi fondamentali per la resilienza: accettare rinunce reciproche sui margini, nell’ottica di presidiare il mercato senza scaricare interamente i costi sul consumatore finale.

Il mercato americano, va ricordato, assicura margini tra i più alti sia per le imprese italiane che per i distributori locali. È proprio in questa peculiarità che può risiedere un ammortizzatore naturale degli effetti negativi dei dazi.

Alcune aziende, non a caso, hanno già definito accordi condivisi per contenere l’impatto dei rincari, nella convinzione che si tratti di misure temporanee e che il presidio del mercato resti la priorità assoluta.

Dalla manifattura alla digital economy: il nuovo asse della crescita americana

È inevitabile che una parte dei consumatori acquisiti di recente, e non ancora fidelizzati, possa risultare esclusa dalla capacità di spesa necessaria per accedere al Made in Italy. Tuttavia, le dinamiche recenti negli USA hanno portato alla crescita di milioni di nuovi potenziali consumatori, spesso localizzati in aree finora poco presidiate.

Il fenomeno Covid, la diffusione dello smart working e il trasferimento dalle città del Nord verso gli Stati del Sud, uniti a nuovi valori nei processi di acquisto, hanno favorito un trasferimento di ricchezza che sta cambiando la geografia dei consumi negli Stati Uniti.

La globalizzazione e, soprattutto, il massiccio processo di delocalizzazione della manifattura, hanno lasciato i tradizionali centri industriali del Nord degli USA in una condizione di arretratezza relativa. Al contrario, gli Stati del Sud e le aree più reattive nella digital economy stanno conoscendo una nuova centralità.

È su queste aree emergenti che le imprese italiane devono puntare con intelligenza strategica, adattando la propria presenza commerciale e distributiva alle nuove mappe economiche del mercato USA.

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