ReteCoM: contributi dei comunicatori all’INPGI. Tutti i motivi del no

Prima puntata 

Quando nell’autunno del 2019 le sette organizzazioni che oggi rappresentano ReteCoM, la Rete tra le Associazioni per la Comunicazione e il Management, scesero in campo alzando gli scudi a difesa dei propri iscritti, l’hashtag fu #INPGIancheNO.

Da allora motiviamo punto per punto il perché di quel no. Da allora chiediamo un Tavolo Tecnico permanente con Istituzioni e Parti sociali.

In attesa di quel confronto non più rinviabile, riteniamo sempre più urgente sottolineare perché il ventilato trasferimento dei contributi di migliaia di Comunicatori dall’INPS all’INPGI si tradurrebbe in un’operazione non solo iniqua e ma anche inefficace sul piano economico.

Un’operazione legislativa di natura puramente contabile provocherebbe effetti penalizzanti, sia per i professionisti della Comunicazione, in termini di orizzonte pensionistico, sia per il Fondo pensione lavoratori dipendenti INPS, in termini di minori entrate contributive. Un’operazione legislativa che lascerebbe non pochi dubbi considerato che le risorse derivanti dai contributi dei comunicatori sarebbero destinati ad una cassa previdenziale di natura privatistica, che per anni ha concesso trattamenti previdenziali ed assistenziali eccessivamente generosi.

I dubbi sono tanti, così come tante sono le domande cui chiediamo risposte.

Per comprendere e contribuire al dibattito in modo costruttivo, abbiamo elaborato – su dati e informazioni di fonti ufficiali INPS e INPGI – un raffronto tra i due sistemi pensionistici.

Il raffronto dimostra che esistono molte sperequazioni tra i trattamenti dell’ente pubblico e quelli dell’ente privato; sperequazioni che intervengono in modo considerevole sul dissesto finanziario dell’INPGI. Quei trattamenti sono stati concessi senza considerarne né gli effetti sulla sostenibilità del sistema, né la grave crisi del settore, che ha fatto precipitare il numero dei nuovi contribuenti ben oltre gli effetti del calo demografico.

ReteCoM, fin da quando si è iniziato ad ipotizzare la misura in esame, ha sottolineato che le criticità di gestione dell’INPGI – ammesse pubblicamente anche dai vertici della Cassa – non possono essere risolte obbligando migliaia di soggetti a cambiare ente previdenziale, peraltro con le difficoltà che ne deriverebbero nell’uniformare le prestazioni di due enti così profondamente diversi.

La “deportazione” forse rinvierebbe il problema nell’immediato, impedendo il commissariamento dell’Istituto, ma condannerebbe i comunicatori subentrati e i giornalisti presenti ad un futuro previdenziale incerto, aprendo un percorso costellato da possibili e numerosi contenziosi.

Pensiamo alla possibile dispersione contributiva e alle difficoltà di ricongiungimento, a fine carriera, dei contributi INPS e INPGI.

A tutto ciò si aggiunge un’altra questione di non facile risoluzione: è difficile individuare correttamente i soggetti coinvolti.  Quanti e quali sarebbero i soggetti passivi di questa operazione? In realtà non ci sono numeri certi. Si stima siano circa 20mila i lavoratori che agiscono sui processi di comunicazione a vari livelli, tradizionale e digitale e con diversi gradi di autonomia e responsabilità proprio all’interno delle imprese.

È stato dimostrato, anche da fonti governative, che l’allargamento della platea contributiva con l’ingresso forzato di altre categorie professionali (per esempio i comunicatori della Pubblica Amministrazione i cui contributi ammonterebbero a poco più di 50 milioni di Euro l’anno), era e resta insufficiente a salvare l’Istituto previdenziale dei giornalisti e non sarebbe comunque in grado di coprire gli oltre 200 milioni annui necessari a portare l’INPGI definitivamente fuori dalla situazione drammatica in cui si trova.

È urgente e necessario, quindi, un confronto costruttivo e trasparente basato sui numeri.

 

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