Trumpnomics: obiettivi ambiziosi, strumenti incerti

Sempre più frequentemente, sulla stampa specializzata, compaiono analisi dettagliate sull’attuale situazione economica degli Stati Uniti e sulle possibili evoluzioni che potrebbero derivare dall’applicazione dei principi della cosiddetta Trumpnomics 2025. Ciò che accomuna molte di queste riflessioni è la constatazione – per alcuni addirittura evidente – di una certa incoerenza tra gli obiettivi dichiarati e gli strumenti scelti per perseguirli, in particolare per quanto riguarda la strategia commerciale racchiusa nel progetto MAGA – Make America Great Again.

La recente decisione della Federal Reserve del 19 marzo, che ha lasciato invariati i tassi di interesse deludendo chi si attendeva un ulteriore taglio, ha accentuato il clima di incertezza. Una scelta che riflette una preoccupazione diffusa: il quadro economico appare pervaso da incertezze e da una mancanza di visione coerente e programmata, in grado di orientare gli attori economici con tempi e strumenti definiti. Mancano un piano coerente e misure programmate nel tempo. Il quadro che si delinea è confuso, con segnali di discontinuità rispetto al passato. Si percepisce un atteggiamento antistorico, che tende a riproporre un’idea di autarchia produttiva, ignorando che è stato proprio il free trade a garantire la leadership globale, sia politica che economica, degli Stati Uniti nell’ultimo secolo.

Il quadro economico USA

Le misure sin qui adottate – e anche quelle annunciate – più che trasmettere l’immagine di un leader determinato, richiamano piuttosto, come qualcuno ha osservato, quella di un “re tentenna”, che modifica quotidianamente il quadro delle misure tariffarie da applicare nei confronti di questo o quel Paese, in base alla risposta – più o meno reattiva – che ne consegue.

Ne emerge un quadro che oggi, contrariamente al passato quando gli Stati Uniti cercavano di combinare strategicamente le politiche commerciali con quelle di egemonia e potere, sembra orientarsi verso un approccio in cui ogni aspetto del commercio internazionale risulta subordinato al perseguimento degli obiettivi del MAGA.

Al netto dell’industria casearia del Wisconsin – tornata a supportare apertamente Trump e in fervente attesa dell’imposizione di pesanti dazi sui prodotti europei, per poter continuare a proporre ai consumatori statunitensi imitazioni delle eccellenze alimentari del Vecchio Continente, tra cui un “pecorino” realizzato interamente con latte vaccino – e al netto di quelle industrie che ancora si ostinano a ignorare le problematiche legate al cambiamento climatico, non sorprende che tutti gli operatori economici, appartenenti ai settori più disparati – dall’industria ai servizi, dalla distribuzione all’ospitalità – vivono oggi in uno stato di marcata incertezza, causato dalla possibile mancanza o riduzione della disponibilità di beni che rappresentano anelli strategici della supply chain, in comparti cruciali persino per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Per porre rimedio a quanto già si sta manifestando, e più in generale agli effetti negativi della trade diversion generata o che si andrà a generare a causa degli eccessivi e spropositati dazi, gli USA dovranno – o meglio confidano di – concentrare notevoli sforzi su una massiccia politica di incentivi per facilitare, anzi accelerare il restoring delle proprie aziende a cui sarà necessario offrire anche sufficiente mercato per giustificare il cambio di strategie sia agli investitori USA sia a quelli esteri.

Le misure messe in atto dalla precedente amministrazione Biden e contenute nell’Inflation reduction Act, malgrado i massicci capitali introdotti, hanno generato risultati molto limitati e, al contrario, hanno avviato una spirale di inflazione di difficile contenimento.

Nel contesto attuale, l’adozione di barriere commerciali e tariffe elevate rischia di provocare una scarsità di beni sul mercato interno e quindi un’ulteriore spinta all’inflazione. Una situazione che, paradossalmente, andrebbe a colpire le stesse fasce sociali che la politica protezionistica pretende di difendere.

La politica dei dazi nella storia americana

L’applicazione di un apparato di tariffe e super dazi era già stata sperimentata dalla precedente amministrazione Trump.

In quella occasione gli USA, per compensare gli aiuti erogati dall’UE a favore di Airbus, avevano attivato una guerra commerciale con l’UE e con alcuni Paesi europei in maniera bilaterale per compensare i danni subiti da Boeing. Ma con l’arrivo dell’amministrazione Biden le misure furono abolite, soprattutto alla luce della spirale inflazionistica che ciò aveva causato su una vasta gamma di prodotti di largo consumo nel settore del food, delle bevande, della moda e di altri beni di necessità primaria.

I sostenitori di un’aggressiva politica tariffaria come toccasana per i ritardi accumulati dagli USA nel settore dei trasporti, nelle reti ferroviarie e nei settori industriali di cui si è impossessata la Cina, fanno riferimento alle politiche applicate con risultati non sempre positivi alla fine del 1800, quando William McKinley, presidente dal 1897 al 1901, applicò un generalizzato sistema di dazi al 50% al valore su quasi tutti i beni importati negli USA.

I principi ispiratori di quella politica erano la sicurezza e il benessere interno della nazione ed era totalmente assente ogni idea di costruire o di esercitare un ruolo di leadership militare e politica su scala mondiale.

Protetti da due oceani e dalla nuova ricchezza industriale che si andava creando, gli USA di allora non avevano alcuna necessità di sviluppare il commercio e di coltivare un ruolo di leadership.

Al contrario, oggi, l’adozione di misure simili, oltre che alienare le simpatie di decine di governi e di qualche miliardo di persone e di consumatori potenziali di beni USA, le politiche stile McKinsey poco si addicono a un paese che deve riaffermare leadership in svariati campi e provare a definire un nuovo ordine internazionale in cui pretende di rilanciare il suo ruolo di centralità.

McKinley perseguiva, secondo un modello definito classico, un consolidamento dell’economia americana proteggendo le Industri che si trovavano nello stadio iniziale, senza nulla chiedere o pretendere dai pochi partner.

Al contrario, la dottrina di Trump è quella di forzare i partner ad accettare le sue politiche e di conseguenza assecondarlo in altri campi di disaccordo che nulla hanno a che vedere con il commercio.

Nel modello di McKinley, i mercati esteri erano quasi irrilevanti per importanza, in quanto al mercato interno veniva assegnato il compito di essere il vero pilastro dell’economia e le politiche protezionistiche erano giustificate dalla necessità di guidare gli americani a consumare prodotti USA, introducendo una delle prime politiche di Buy American che ogni tanto ritornano anacronisticamente d’attualità.

Ma pur continuando a dare importanza alle misure protezionistiche, con il passare degli anni McKinley adottò una visione più flessibile, cogliendo i vantaggi di un’apertura ragionata del mercato. Fu proprio questo passaggio a offrire agli Stati Uniti i primi successi sui mercati globali.

Alla base delle sue politiche vi era la convinzione che l’isolazionismo commerciale avrebbe favorito la prosperità degli USA, puntando su un’economia interna sana come fondamento della forza del Paese. Ne derivava una spesa militare estremamente contenuta.

Le conseguenze del protezionismo

Con la Presidenza Trump si sta mettendo fine a decenni di pratiche e di politiche commerciali tese ad allargare i mercati e gli scambi commerciali, togliendo voce ai sostenitori del libero commercio.

Trump, con le misure già adottate – poche – e con quelle ancora solo minacciate, si stanno modificando le regole del gioco, forzando i partner commerciali a reagire e, in molti casi, a fare lo stesso. La politica economica trumpiana, basata su alti dazi all’importazione, potrà forse ottenere alcuni risultati nel breve termine, ma già nel medio periodo molti analisti prevedono una fase segnata da alta inflazione e recessione.

A rischio, dunque, non è solo la situazione economica e sociale interna, ma tutto il sistema di alleanze e ruoli internazionali costruito dagli USA dal secondo dopoguerra ad oggi. Più l’amministrazione americana si ostinerà a percorrere questa strada, più attuali e potenziali partner si rivolgeranno altrove, costruendo barriere protettive nei confronti degli stessi Stati Uniti.

Con la conseguenza – e il rischio – che il ruolo militare e politico degli USA venga irrimediabilmente compromesso ed eroso.

Lo scenario attuale

Il mondo del 2025 è profondamente diverso da quello che ispirò le politiche di McKinley e che oggi sembra ispirare la Trumpnomics. Oggi, la politica tariffaria, e più in generale quella commerciale, di Trump crea confusione e disruption nei mercati e attiva reazioni forti anche nei tradizionali partner politici.

L’attuale struttura economica degli USA è ovviamente profondamente diversa da quella di fine ‘800 e il commercio estero del paese ha un ruolo rilevante sul PIL USA avendo raggiunto la considerabile cifra di 7,3 trilioni di dollari alla fine del 2024.

Un sistema tariffario rigido e generalizzato comporterebbe costi elevatissimi per i consumatori, soprattutto per le classi sociali che la stessa amministrazione Trump afferma di voler difendere. Sebbene nel breve termine le tariffe possano portare nuove risorse nelle casse federali e favorire alcuni settori produttivi, alla lunga saranno proprio i consumatori americani a pagare il prezzo più alto, a prescindere dalla fascia sociale o dalla collocazione geografica.

Senza considerare l’incognita della possibile sofferenza di industrie locali, che invece di essere rilanciate, dipendendo fortemente dalla supply chain straniera, si vedrebbero costretti a ridurre produzione e relativa occupazione.

Con un livello di export che oggi raggiunge i 3,2 trilioni di dollari USA, non è da scartare l’ipotesi che buona parte di questo export potrebbe ridursi consistentemente con gravi, pesanti conseguenze per l’intero quadro economico.

I sostenitori delle misure trumpiane confidano che ciò possa stimolare la produzione domestica e i consumi di beni Made in USA e sono portati a dipingere un quadro positivo in prospettiva, ignorando che molte filiere anche nel settore dei beni di consumo e intermedi hanno lasciato da tempo il territorio USA. Per un eventuale ipotetico loro rientro saranno necessari tempi lunghi e ogni eventuale intervento governativo teso ad incentivare e velocizzare il reshoring avrebbe comunque effetti negativi sui consumatori nella veste di taxpayer.

In ogni caso, comunque, diversi milioni di americani con elevata capacità di spesa costituiscono una qualificata domanda anelastica rispetto agli alti prezzi generati dalle tariffe, risultando così difficili da convertire per il Buy American.

Più in generale, la ridestata inflazione minaccia seriamente quelle classi sociali che in campagna elettorale Trump aveva promesso di proteggere e far rinascere.

Dalle minacce alla realtà

Esiste quindi una reale possibilità che la politica protezionistica, così come è stata minacciata, venga ammorbidita per far emergerne una più coerente, con più ragionate misure selettive per settori e per Paesi o aree commerciali.

Tutto ciò allo scopo di passare a proteggere realmente i settori ritenuti strategici e determinanti per la sicurezza nazionale USA, arrivando persino a definire nuovi accordi e trattati sia bilaterali che multilaterali, restrizioni volontarie all’export con i numerosi partner da considerarsi come tali e non come vassalli.

Le vicende del commercio internazionale degli ultimi secoli confermano che il protezionismo può essere solo transitorio, perché i benefici possibili sono solo nel breve tempo; nel medio e nel lungo periodo il Paese che erge dei muri tariffari finisce per averne danni di notevole portata.

Alla luce di tutto quanto sopra esposto, risulta evidente che le dinamiche interne ed internazionali determineranno un cambio di atteggiamento nell’amministrazione Trump anche se ora non è dato sapere quando e come.

La possibilità di poter ridurre il deficit commerciale accumulato nel corso degli anni nei confronti di numerosi partner, tra cui alcuni europei, come conseguenza di misure protezionistiche è abbastanza reale ma è altrettanto reale il rischio di avviare dinamiche che potrebbero danneggiare notevolmente il paese.

I più importanti gruppi della grande distribuzione hanno a più riprese messo in guardia le autorità USA dal rischio di ritrovarsi senza sufficienti quantitativi di merci da offrire ai consumatori con il rischio che ad entrare nei circuiti commerciali siano prodotti di scarsa qualità, anche nel settore alimentare, dalla provenienza incerta e non certificata.

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